Negli ultimi anni ho visto il tema ESG passare da una semplice “voce” nel bilancio di sostenibilità a una leva concreta di trasformazione aziendale. Oggi, chi si occupa di finance o di sistemi informativi non può più considerarlo un tema secondario. La gestione dei dati ESG è diventata un indicatore diretto della credibilità, della trasparenza e della maturità organizzativa di un’impresa.
E non si tratta solo di compliance.
Con l’entrata in vigore della CSRD a partire dal 2024, la rendicontazione ESG cambia pelle: da dichiarazione volontaria a obbligo strutturato, integrato e – soprattutto – verificabile. Le imprese coinvolte (oltre 50.000 in Europa, secondo la Commissione UE) dovranno riportare i propri dati secondo gli European Sustainability Reporting Standards (ESRS), con un livello di dettaglio e tracciabilità che fino a pochi anni fa era impensabile.
Questo nuovo scenario implica una trasformazione profonda. Perché quando parliamo di dati ESG, parliamo di una categoria di informazioni molto eterogenea: emissioni Scope 3, policy etiche nella supply chain, diversity & inclusion, risk governance, solo per citarne alcune. E la verità è che questi dati, spesso, non risiedono nei sistemi aziendali tradizionali. Nascono in file Excel, report distribuiti, moduli cartacei, sistemi HR isolati, piattaforme ambientali dedicate.
Per questo motivo, chi – come noi – lavora sul fronte dell’integrazione tecnologica ha un ruolo chiave: trasformare un groviglio di fonti in un ecosistema coerente, automatizzato e auditabile.
Le 4 best practice
Se c’è una cosa che ho imparato, è che non esiste una formula magica, qualunque sia l’argomento. Ma alcune buone pratiche fanno davvero la differenza.
1. Ripartire dalla materialità
La matrice di doppia materialità, prevista dalla CSRD, non è un esercizio di compliance. È un ottimo strumento per capire quali sono davvero i temi su cui focalizzarsi, e quindi quali KPI costruire e monitorare. Serve anche un glossario ESG condiviso a livello aziendale: può sembrare banale, ma se “turnover” significa una cosa per HR e un’altra per Finance, si rischia di generare confusione prima ancora di cominciare.
2. Usare la tecnologia per automatizzare (ma con criterio)
Non servono mille tool. Servono piattaforme che parlino tra loro. Oggi esistono soluzioni in grado di integrarsi nativamente con i principali ERP, CRM, sistemi HR e gestionali ambientali. L’importante è costruire un’architettura dati flessibile e scalabile: data hub centralizzati, con connettori API e strumenti di data quality integrati.
Secondo IDC, entro il 2026 oltre il 65% delle aziende europee investirà in tecnologie per la gestione ESG. E lo capisco: l’automazione riduce drasticamente errori, tempi e costi.
3. Trattare i dati ESG come la contabilità
Quando parlo con i CFO, dico sempre una cosa: se i dati ESG finiscono nel bilancio, devono essere trattati come i dati economici. I dati quantitativi (CO₂, incidenti sul lavoro, gender pay gap) devono avere audit trail, timestamp, validazioni. Quelli qualitativi (es. codici etici, strategie DEI) vanno gestiti con flussi approvativi chiari e versionati. Non basta “averli” – devono essere solidi, consistenti, giustificabili.
4. Avere dashboard reali, non solo belle
Una dashboard ESG non serve solo per il board: deve aiutare a prendere decisioni operative. Meglio se aggiornata in tempo reale, meglio se con alert sui trend di rischio, meglio ancora se integrata con modelli predittivi. L’obiettivo? Passare da report statici a strumenti di governance dinamica.
ESG è anche – e soprattutto – un’opportunità di crescita
Lo dico spesso: la compliance è solo il punto di partenza. I dati ESG ben gestiti permettono di ottenere accesso agevolato al credito, attrarre investitori istituzionali, migliorare il posizionamento negli ESG score. Secondo uno studio di Harvard Business Review, le aziende con una governance ESG avanzata hanno il 47% in più di probabilità di superare meglio i periodi di crisi finanziaria. E secondo Morningstar, i fondi ESG continuano a sovraperformare, anche in mercati volatili.